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Parcella da 80 milioni per D’Alema mediatore d'affari nella vendita di armi alla Colombia.


Un signore che non è in Parlamento ma che conosce assai bene i palazzi della politica e i modi per oliare un affare. Il signore in questione si chiama Massimo D'Alema, è stato segretario del Pds, ministro degli Esteri e presidente del Consiglio. E due mesi fa si è proposto al governo colombiano come mediatore di una commessa da quattro miliardi di euro per navi, sommergibili e aerei da guerra prodotti dalle aziende di Stato italiane. In particolare da Leonardo, l'ex Finmeccanica presieduta da un ex banchiere di area ulivista come Alessandro Profumo.


Il Lìder Maximo non ci sta. Dopo la pubblicazione dell’audio in cui parla di affari con i vertici di Fincantieri da parte de La Verità, Massimo D’Alema si difende e accusa. «Noi – scandisce l’ex premier al telefono nella registrazione– abbiamo ottenuto il 2% di provvigione, senza alcun tetto. Un risultato importante. E siamo in grado di garantire la firma del contratto». E insiste sulla necessità di schermare il tutto attraverso uno studio legale americano perché «la Colombia è all’attenzione degli Stati Uniti». Si parla di una commessa di 4 miliardi di euro per due sottomarini, quattro corvette, ventiquattro aerei M346. E della provvigione da 80 milioni da dividere tra la cordata dalemiana, i soci dello studio Robert Allen Law, e i «colombiani». Tra questi, ricorda La Stampa oggi, anche due mediatori: i cineasti italiani Francesco Amato ed Emanuele Caruso, residenti in Sudamerica, che per l’ex premier erano consiglieri del ministero degli Esteri della Colombia.


Ma D’Alema respinge le accuse: «Ho cercato di dare una mano a imprese italiane per prendere una commessa importante. Ero stato contattato da personalità colombiane. Evidentemente a qualcuno dava fastidio ed è intervenuto per impedirlo. Sia il governo sia l’ambasciata colombiana erano stati chiaramente avvertiti di tutto. Trovo incredibile come sia facile reclutare in Italia qualcuno disponibile a danneggiare il Paese», dice al quotidiano. E in un’intervista rilasciata a Repubblica è ancora più esplicito: «Io non ho alcun rapporto di lavoro né con Fincantieri né con Leonardo e non trattavo per conto di nessuno. La telefonata? Uno dei colombiani che ha chiesto di parlarmi, mi considerava il garante dell’operazione. Lamentava che non erano stati pagati. Ho spiegato che l’unica maniera per avere un riconoscimento per il loro lavoro era partecipare a un “success fee”. Ove mai l’affare fosse andato in porto».

E gli 80 milioni? «Mai preso un euro. Innanzitutto io non ho un’idea precisa di quanto possa essere il success fee in un’operazione di questo tipo, ho fatto riferimento al valore che normalmente si dà a queste transazione, è anche evidente che dovevo convincere un interlocutore riluttante e convincerlo naturalmente a fare una scelta nell’interesse dell’Italia e non della mia persona. In questa vicenda, ripeto, non ho contratti con nessuno. Per me era già importante far conseguire un risultato a Leonardo e Fincantieri, che hanno un rilevante peso nel sistema economico italiano anche perché questo indubbiamente accresce la credibilità di chi fa lavoro di consulenza. Temo che tutto questo clamore avrà l’unico effetto di far perdere alle imprese italiane una commessa da 5 miliardi».


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